Il liuto di messer Francesco: Petrarca e la polifonia

Foscolo scriveva: "Il Petrarca compose i suoi versi al suono del suo liuto... ed ebbe voce dolce, flessibile e di grande estensione"

“Per poco che a’ nostri moderni compositori di Opera possano apparire i Sonetti e la Canzoni, suscettivi di musica, non è perciò men vero che quelle voci sono derivate da Suono e da Canto, e che da’ poeti furono spesso poste note musicali alle stanze loro. … Il Petrarca compose i suoi versi al suono del suo liuto, che legò nel testamento ad un amico; ed ebbe voce dolce, flessibile e di grande estensione. Tutta la poesia d’amore de’ predecessori …manca di dolcezza e di numeri; ma la dolcezza del Petrarca è animata da varietà e ardore tale, che nessuna lirica italiana ha mai conseguito l’uguale. La facoltà di serbare e variare a un tempo il ritmo è tutta sua; – la melodia ne’ suoi versi e perpetua, e pur non istanca l’orecchio mai ”

— (Foscolo)

Francisci Petrarche laureati poete rerum vulgarium fragmenta: il Canzoniere di Petrarca, 366 poemi a cui l’autore lavorò per la gran parte del tempo della sua maturità. A leggerli oggi, questi versi, si stenta a credere siano trascorsi quasi sette secoli, tanto la lingua è reale, moderna.
Tutta la poesia precedente sembra riassunta e reinterpretata da questa immensa raccolta cui Petrarca ha voluto dare una struttura bipartita, come la Vita Nova di Dante: la celebrazione dell’amata in vita, e dopo la morte. L’aspetto che ci rende così prossimo il Canzoniere è l’inesauribile capacità di immergersi nell’anima dell’uomo, nella sua psiche, scorgendo ogni volta un aspetto appena differente.
Intrattenimento infinito alla ricerca del senso di un’inquietudine interiore di cui non si scorge il fondo. Sospesa ogni convenzione di spazio e tempo, la poesia di Petrarca disorienta e al contempo è espressione di una delle più vaste digressioni che il pensiero abbia conosciuto. Un linguaggio che non conosce storia, dove il soggetto è assoluto e autonomo, operante solo su se stesso.
Una straordinaria arte dei “segni”, si è detto di queste rime, che va oltre il “cristallo della parola e del ritmo”, una rete infinita di rimandi, di allusioni, di idealizzazioni. Linguaggio cifrato che costituisce la gigantesca struttura di un mondo della mente, la mappa di una frattura interiore mai colmata, anzi restituita ogni volta nei suoi molteplici aspetti, instancabile espressione della malinconia, respirata nel timbro della parola, prima ancora che nel significato di essa.

Ecco quindi il perfetto accordo tra questa poesia e il madrigale. Il madrigale infatti è e resta una forma della musica che non potrebbe neppure esser concepita senza Petrarca e senza l’immenso fenomeno a lui ispirato, il petrarchismo, una vastissima corrente poetica che investì l’Italia e l’Europa dal Trecento al Barocco.
Era stato il cardinale Pietro Bembo, umanista e poeta veneziano, il primo a contribuire alla grande rinascita della poesia di Petrarca con la pubblicazione nel 1501 di un’edizione riveduta e corretta del Canzoniere. Nel suo trattato Prose della volgar lingua (1525), il Bembo definiva lo stile del Petrarca come l’ideale poetico per eccellenza, per la scelta delle parole, il suono delle vocali e delle consonanti, il ritmo del verso e il soggetto stesso delle poesie. La poesia di Petrarca decantata dalla riflessione e dalla distanza, diventava così un modello pari alla poesia dell’antichità. I poeti cercarono di imitare le sue metafore, restituirono nei loro versi un mondo popolato di immagini petrarchesche, metafore e figure retoriche. Le poesie del Canzoniere che venivano privilegiate nelle scelte musicali erano quelle che permettevano al compositore di esplicitare al meglio il senso delle parole. Per cui si formò tutto un repertorio di figure musicali capaci di esprimere il senso delle parole, come le dissonanze con ritardo, a significare il pianto, il dolore o il sospiro, e le note veloci per significare il riso.
La fama del Petrarca tra i madrigalisti appare in pieno cinquecento con una incredibile ricchezza di esempi, e valica i confini italiani. Nel 1550, quando Alberto V divenne duca di Baviera, volle una corte che imitasse la vita nelle corti italiane del Rinascimento. Divenne collezionista di antichità, acquistò preziosi volumi, fece ingrandire la sua residenza sul modello di quelle dei principi italiani. E chiamò Orlando di Lasso come tenore e compositore della cappella di corte.


Questi, formatosi alla scuola italiana, aveva pubblicato nel 1555, ancor prima della sua partenza per Monaco, il suo Primo libro di madrigali, a Venezia da Gardano. Ad Anversa era invece stata stampata dall’editore Susato una raccolta di madrigali e villanelle in italiano. Una frase sul frontespizio di quest’edizione indica le fonti stilistiche di questo giovane compositore, che scrive “alla maniera di alcuni d’Italia”. La frase sembra alludere al compositore veneziano Adriano Willaert, il primo a mettere in musica i versi del Petrarca, in uno stile particolarmente severo, cosa che aveva fatto anche il suo allievo Cipriano de Rore, stimatissimo alla corte di Monaco. Pur attivo in terra tedesca Orlando di Lasso, la cui versatilità e ricchezza di ispirazione ne facevano un compositore di fama internazionale, fu in costante contatto con committenti ed editori di altri paesi. Si appropriò di tutte le forme musicali nonché di quelle poetiche ed è certo che anche nella scelta dei testi seguì, non tanto la richiesta della committenza quanto piuttosto il proprio gusto personale.
Molti anni dopo, nel 1567 a Ferrara, venendo da Venezia, Orlando di Lasso offrì in dono al duca Alfonso d’Este il suo Libro Quarto dé madrigali a cinque voci, dove compaiono tra gli altri anche i due madrigali su liriche del Canzoniere: Tutto il dì piango e Quel rossignol. I virtuosismi linguistici di Petrarca ispirano al musicista invenzioni musicali di eguale livello, come la costante ripresa dell’accordo di mi maggiore che vuol fare eco alle parole “soave” e “dolcezza”, con sonorità che esprimano il dolce canto dell’usignolo.
La musica era capace – come aveva auspicato Vicentino nel suo libro L’antica musica ridotta alla moderna pratica (1555) – di esprimere passioni ed effetti [affetti?] con l’armonia.
La musica infatti è “espressione” e l’espressione è l’essenza della seconda pratica, come Monteverdi amava definire la musica moderna.

Verso gli anni novanta l’onda petrarchesca sembrava arrivata al suo confine, e la fama del poeta fu meno la moda. Proprio in quegli anni in cui l’interesse dei musicisti da Petrarca si volge ad altri poeti come Guarini e Tasso, appare il Nono libro dei madrigali di Luca Marenzio, dove troviamo ben sette madrigali su testo del Petrarca. L’opera fu stampata a Venezia da Angelo Gardano nel 1599, ed era l’ultima raccolta di Luca Marenzio, pubblicata da lui vivo. La dedica andò al Duca di Mantova, Vincenzo Gonzaga.
La scelta di Petrarca è dunque già indizio di intenzioni non tolleranti nei confronti delle mode vigenti. Una scelta di tradizione più che di modernità. Identica gravitas anche nella metrica e nella morfologia: predominante la presenza dell’endecasillabo e della forma classica (sonetto, sestina).
Livello stilisticamente elevato per temi che eccedono l’ordinario. La passione declinata secondo le parole e il ritmo del linguaggio petrarchesco assume toni accesi, ma anche delineati con grazia leggiadra, come il sonetto L’aura che ‘l verde lauro et l’aureo crine/ soavemente sospirando muove, che sembra portarci il profumo di quello Zefiro torna, uno dei più belli, ancorchè noti sonetti del Petrarca. Vivacità e leggerezza che nella realizzazione di Marenzio caratterizzano il madrigale, libero da quella tensione espressiva che appare assente anche dal sonetto, dove la sofferenza è penetrata dalla luce.
La componente metalinguistica indicata dal compositore che programmaticamente afferma di tenere ad un “parlar aspro”, acuminato e petroso come la parola talvolta desertificata dall’assenza, una durezza e una parola cruda. Di qui il “cangiamento di stile”, dalla felice condizione e dal “viver lieto” delle rime “in vita” di Madonna Laura, a quelle “in morte” che più dolorosamente afferrano il profondo del dolore, dell’assenza, del pianto. Anche se il poeta non vuole ignorare che tale trasformazione di stile possa perfino giungere a colei che con la sua morte ha determinato le rime e il pianto. Sealto pon gir mie stanche rime, Chaggiungan lei
In vero il concetto di cambiamento di stile non può non riguardare anche il dato interpretativo. In questo caso per lasciar assaporare meglio, o in tutto e per tutto, la sopraffina arte del madrigale di Marenzio, alcuni scelgono di interpretare questi testi con un tempus gravis, unico mezzo per rendere visibili tutte le dissonanze, i contrasti, le pause, i silenzi. Per tal modo – con parole di Foscolo – ne si fa chiaro il perfetto accordo che regna nella poesia del Petrarca tra natura ed arte; tra l’accuratezza di fatto e la magia d’invenzione, tra profondità e perspicuità, tra passione divorante e pacata meditazione.

Quando Sigismondo D’India mosse i primi passi di compositore (il suo Primo libro di madrigali a cinque voci apparve nel 1606), tutti e nove i libri di Marenzio erano già apparsi, Gesualdo era alla sua quarta raccolta madrigalistica e a Venezia, dove visse e lavorò anche Giovanni Gabrieli, si stampava il Quinto libro dei madrigali di Monteverdi.
Il 1600 aveva aperto le porte alla monodia, ossia il nuovo corso della musica vocale che porterà con sé la nascita dell’opera. Sigismondo fu – insieme a Monteverdi – uno dei compositori che saprà imporre all’attenzione la nuova monodia accompagnata, anche se non abbandonò mai l’universo del madrigale, le raffinatezze espressive che aveva appreso da Luca Marenzio, gli oscuri contrasti e l’acre cromatismo di Gesualdo, suo maestro a Napoli insieme a Jean de Macque. Il suo primo libro di madrigali fu ristampato nel 1607 e di nuovo nel 1610 da Gardano a Venezia, uno dei più grandi tipografi musicali dell’epoca. Lo stesso Gardano ripubblicò nel 1610 il Libro primo delle villanelle alla napolitana, che aveva avuto la sua prima edizione a Napoli due anni prima.
Fu nei suoi frequenti viaggi attraverso la penisola italiana che Sigismondo, nobile palermitano, ebbe modo di incontrare le personalità musicali più in vista dell’epoca. A Firenze nel 1609 incontrò Giulio Caccini, che nel 1601 aveva pubblicato Le nuove musiche, e sul suo esempio anche Sigismondo intitolò Musiche i suoi cinque libri dedicati alla “voce sola”. Nella prefazione al primo libro delle Musiche Sigismondo, come già aveva fatto Caccini, sentì la necessità di scrivere una prefazione e di raccontare come in questa scelta fosse stato illuminato dai discorsi di uomini “intelligenti in musica”:

“io mi posi a ricercar alcune diligenze particolari per ben cantare ad una sol voce, et ritrovai che si poteva comporre con intervalli non ordinarij, passando con più novità possibili da una consonanza all’altra, secondo la varietà de i sensi delle parole , et che per questo mezo i canti havrebbono maggior’ affetto, et maggior forza nel movere gli affetti dell’animo di quello ch’avessero potuto operare, se fossero state composte tutte ad un modo con ordinari movimenti…

Pur non abbandonando mai il terreno del madrigale, di cui pubblicò otto raccolte, Sigismondo avvertì il profondo senso di rinnovamento che poteva offrirgli la monodia in cui riversa tutte le scoperte e le conquiste della polifonia. Nelle Musiche tornano anche per Sigismondo le poesie di Petrarca, e qui trovano un nuovo terreno in cui si rinnovano e lasciano affiorare altre e molteplici forme dell’invenzione. Nel Libro primo appare il sonetto Io vidi in terra angelici costumi, nel Libro terzo i sonetti Tutto il dì piango e Voi che ascoltate, lirica di apertura del Canzoniere, nel Libro quarto il sonetto Mentre che ‘l cor. Splendide pagine in cui Sigismondo raggiunge una perfezione di stile elevato e semplice ad un tempo. Illuminanti le parole di Carapezza a proposito: “La concentrazione più profonda consente l’espressione sonora del senso interiore delle parole nella semplicità d’una melodia rigorosamente sillabica (con molte note ripercosse) e prevalentemente graduale su le immagini più nette e affascinanti di cui l’uomo e la musica siano capaci: alla fine di Mentre che ‘l cor il flusso sonoro letteralmente si frange su “romper le pietre” e subito si raddolcisce su “pianger di dolcezza”.
Qui la lezione del madrigale trascolora nella nuova monodia e nel nuovo tempo. Prezioso avvolger di senso la parola scritta, adesione al testo che ne esalta le profondità e la leggerezza, una nuova natura che esalta sapori e profumi, per regalare emozioni ai sensi e al cuore.
Un linguaggio musicale in cui trova altri orizzonti quel continuo slittamento, quella dilatazione inesausta del sentire, che era il Canzoniere di Petrarca, immagine perfetta di un universo sempre anelato, l’universo irraggiungibile in cui Malinconia vive.